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MOLTO FORTE, INCREDIBILMENTE VICINO di Jonathan Safran Foer

“Per l’ultima che abbiamo fatto, e non è mai finita, mi aveva dato una pianta del Central Park. Io gli ho chiesto: «E allora?» E lui: «Allora cosa?» E io: «Dove sono gli indizi?» E lui: «Chi ha detto che dovevano esserci degli indizi?» «Ci sono sempre degli indizi.» «Di per sé questo non significa niente.» «Nessun indizio?» E lui: «A meno che nessun indizio voglia dire un indizio.» «Nessun indizio è un indizio?» Lui ha alzato le spalle, come se non capisse cosa dicevo. Mi è piaciuto da matti. Ho passato tutta la giornata a girare per il parco in cerca di qualcosa che mi dicesse qualcosa, ma il problema era che non sapevo cosa stavo cercando. Andavo a domandare alle persone se sapevano qualcosa che avrei dovuto sapere, perché a volte papà preparava la Spedizione in modo che dovessi parlare con la gente. Però quelli che interrogavo mi rispondevano soltanto: Ma che…? Ho cercato gli indizi dalle parti del laghetto. Ho letto tutti i manifesti attaccati ai lampioni e agli alberi. Ho studiato le descrizioni degli animali allo zoo. Ho perfino chiesto di ritirare gli aquiloni a quelli che li facevano volare… per studiarli, anche se sapevo che difficilmente avrei trovato qualcosa. Ma papà era capace di essere un volpone. Non c’era niente, e questo poteva essere un male, sempre che niente non fosse un indizio. Era un indizio?”

Questo brano è il primo, a pagina 20 dell’edizione di Guanda, che ho sottolineato durante la mia lettura. Il primo che ha catturato il senso del rapporto che emergerà in questo romanzo tra un papà e suo figlio. In queste poche righe trovo una rassicurazione e un affetto disarmanti. Quando poi scopriamo che il figlio ha meno di 10 anni e che i suoi interessi riguardano lo spazio, la scienza, la verità delle cose - e sulle cose - potrei dire l’etimologia della vita e della morte, allora restiamo ulteriormente rapiti dai dialoghi che permeano tutte le 351 pagine del testo.

Inversamente proporzionale è conoscere e staccarsi da Oskar. Tanto facile la prima azione, così difficile mi è risultato finire l’ultimo capitolo. Proprio per la resistenza, più o meno evidente, che si era impossessata di me e che non voleva che arrivassi alla conclusione di questo viaggio.

Viaggiare con Oskar è stata una delle cose più affascinanti, dolci, dolorose che può solo capitare quando ci si imbatte in libri, come questo, che sanno toccarti in un profondo che nemmeno tu sapevi esistesse e che è proprio lì, dentro di te, per te e per gli altri. 



C’è un bimbo che ha perso il padre, c’è un padre che ha perso il suo bimbo. Ma le storie sono molte più di una sola. I capitoli che le narrano sono intrecciati e alternati con pause di pagine che graficamente evocano le immagini delle parole e dei concetti che le hanno precedute.




“Pensai alla vita, alla mia vita, ai disagi, alle piccole coincidenze, all’ombra delle sveglie sui comodini. Pensai alle mie piccole vittorie e a tutto ciò che avevo distrutto, avevo nuotato tra le pellicce di visone sul letto dei miei genitori mentre ricevevano gli ospiti da basso, avevo perso l’unica persona con cui avrei potuto vivere la mia unica vita, mi ero lasciato dietro mille tonnellate di marmo da cui avrei potuto ricavare sculture, ricavare me stesso dal marmo di me stesso. Avevo conosciuto la gioia, ma non abbastanza, può essercene abbastanza? La fine del dolore non giustifica il dolore, e il dolore è infinito, che macello che sono, pensai, come uno stupido, stupido e meschino, e inutile, misero e patetico, come sono disperato. Nessuno dei miei animali conosce il proprio nome, che razza di persona sono, io? Alzai il suo dito come se fosse la puntina di un giradischi e sfogliai all’indietro, una pagina alla volta (...)”

La poetica, qui, scorre in piena come un fiume che ti porta con sé assieme a milioni di dettagli significanti e significativi. Con estrema poesia si parla del lutto, dell’abbandono, della guerra. Si parla di amicizia, di fiducia, del legame indissolubile che si crea fra le persone e che oltrepassa qualunque sfida, qualunque blocco, qualunque paura. E l’autore ne parla in maniera singola e plurale, rendendoli estremamente personali e al tempo stesso estremamente universali. Ogni riflessione che può nascere all’interno delle acque di questo libro sa sconfinare e dilagare, e prosciugare contemporaneamente. 

Così si susseguono delle vicende minuscole che coinvolgono la storia di una famiglia. Con loro ci sono fatti di cronaca, leggende e sogni, invenzioni e personaggi illustri che piombano come meteore formando crateri da riempire. 


“Mi sono concentrato su cose felici e protettive, tipo la lampo dietro il vestito della mamma e il fatto che papà quando fischiava troppo a lungo doveva bere un bicchier d’acqua.”

La voce di Oskar mi ha aiutata a guardare tutti questi vuoti con un’innocenza smisurata. L’ho realmente visto camminare in lungo e in largo - e anche in alto e in basso - per la sua città, per i suoi ricordi, voler conoscere le persone, affannato, affranto, innamorato, rannicchiato accanto a Buckminster. Soprattutto l’ho visto mentre pone domande. Le sue domande. Un googleplex di domande. Sono state loro a creare tutta la sintonia possibile col mondo interno ed esterno. Le domande più libere che io abbia mai potuto leggere e condividere.


“A noi servono tasche molto più grandi, ho pensato a letto, mentre contavo i sette minuti che ci vogliono in media a una persona per addormentarsi. Servono tasche enormi, tasche abbastanza grandi per le nostre famiglie, e per i nostri amici, e anche per le persone che non sono nelle nostre liste, gente che non abbiamo mai conosciuto ma vogliamo proteggere. Servono tasche per i distretti e per le città, una tasca che possa contenere l’universo. (...) Però sapevo che non possono esistere tasche così grandi, e che alla fine tutti perdiamo tutti. Non c’era un’invenzione che potesse risolvere questo problema e così, quella notte, mi sono sentito come la tartaruga che sostiene tutte le cose dell’universo.”

Ecco perché il titolo l’ho sentito riassumere perfettamente la sensazione che si vive e che ti lascia la lettura di questo romanzo (in originale “Extremely Loud & Incredibly Close”).

Un libro che ho amato dall’inizio alla fine, e oltre, e che mi ha avvicinata a questo autore di cui leggerò di sicuro altro. Un libro che ha fatto scattare in me l’irrefrenabile voglia di immedesimarmi in chiunque, di trascendere i luoghi comuni, di riappropriarmi della semplicità delle origini, di far trionfare i sentimenti.


“Ho spiegato a Mr Balck che avevo il panico, e lui ha detto che era giusto avere il panico. Gli ho spiegato che sentivo che non ce l’avrei fatta, e lui ha detto che era giusto sentire di non farcela. Gli ho spiegato che era la cosa che mi faceva più paura. Lui ha detto che capiva perché. Avrei voluto che non fosse d’accordo, ma lui lo era, e quindi non potevo litigare. Gli ho spiegato che l’avrei aspettato, e lui ha risposto: «D’accordo.» «Okay, okay.?» ho detto. «Vengo anch’io.»”

Sono enormemente grata di aver letto questo libro, degli indizi disseminati al suo interno e fuori, dei lunghi momenti di tumulto e conforto, di conforto e tumulto, che mi ha regalato. Un libro che “bisogna” leggere e per cui non troverò parole adeguate. E forse questo è proprio indice della bravura di un autore che sa dire tutto in una maniera completa a cui nessuna recensione potrà mai aggiungere qualcosa che ne sia davvero all’altezza.


Jonathan Safran Foer

MOLTO FORTE, INCREDIBILMENTE VICINO

Guanda



Recensione e fotografie di Rossana Orsi (rossana_orsi)


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