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incontrando Valentina Giua

  • lachanceria
  • 19 ore fa
  • Tempo di lettura: 7 min

rubrica: Intravedersi


Conversare con un autore è sempre un privilegio di intimità concesso. Un guardarsi reciproco per cogliere sfumature di sé e approfondire il proprio rapporto con il mondo interiore e l’alterità.

Apriamo questa nuova rubrica incontrando Valentina Giua: poetessa e punto di riferimento della Sicilia per l'associazione culturale Rinascimento Poetico.


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M. Valentina, benvenuta. Ti chiedo cosa coinvolge e chi abbraccia questo processo di rinascita e qual è il tuo ruolo operativo in ciò?


V. Grazie per avermi accolta qui. Un dialogo comincia davvero quando le domande fanno nascere in chi risponde il desiderio di cercare, non solo di rispondere. Le tue hanno questo effetto. È un privilegio.

Rinascere attraverso la poesia è un processo che abbraccia chiunque senta, anche solo per un istante, il desiderio di guardarsi davvero. Non è necessario essere scrittori: basta avere un punto di luce dentro, un barlume di disponibilità all’ascolto.

La parola è un seme. E noi, come umili contadini, tentiamo di rendere fertile la terra in cui può attecchire, accogliendo tutte le sfumature che la parola porta con sé: quelle che curano, quelle che graffiano, quelle che svelano. Anche le parole forti hanno una funzione, perché spesso sono proprio quelle che aprono un varco nella coscienza.

Non è un percorso elitario, è un bisogno umano, viscerale.

Rinascimento Poetico abbraccia un’idea di poesia come atto di presenza nel mondo, come possibilità di trasformazione e di ascolto reciproco. È un movimento che riunisce voci diverse con un unico desiderio: riportare la poesia tra le persone, nei luoghi, nelle comunità. Come referente per la Sicilia, il mio ruolo è essere un tramite, un punto di contatto. Ideo, promuovo e coordino iniziative che permettano alla poesia di diventare esperienza vissuta.

Tra queste c’è LeggerissimaMente – poesia, arte e musica, un progetto da me ideato, vincitore del bando Cepell – Città che legge e realizzato in collaborazione con il Comune di Catania. È un percorso che porto avanti con profonda dedizione, coinvolgendo scuole, biblioteche e luoghi culturali, affinché la poesia continui a essere un gesto di rinascita condivisa.

Cerco di creare un terreno fertile, di accendere una scintilla con un laboratorio, di suggerire una lettura, ma la vera rinascita avviene nell'intimo di ciascuno, quando quella scintilla inizia a bruciare da sola.

Il mio umile tentativo è quello di fare da ponte: tra chi si avvicina per la prima volta alla poesia con curiosità, chi l'ha già incontrata ma desidera osservarla in modo nuovo, e soprattutto chi ha il bisogno di sentirla sottopelle, di ascoltarla come una traccia-radice di appartenenza. È un po' quello che avviene con la preghiera, intesa non in un senso dogmatico, ma come un anelito verso una Volontà superiore, impalpabile eppure fortemente inscritta nelle nostre radici. Quel mistero divinatorio che la letteratura di tutti i secoli ha cercato di afferrare, e che si fa tutt'uno con le radici stesse della parola: una visione comune di cammino, un ritrovarsi come animi affini in un pellegrinaggio condiviso.

M. Dopo varie pubblicazioni in testi antologici di autori vari, il tuo cammino personale con il libro e la poesia è iniziato nel 2019 grazie alla silloge "La sognatrice con le trecce". Custodisci ancora dentro di te l'emozione di quella tua prima opera edita? E come ha influenzato, se lo ha fatto, tutto il processo creativo conseguente? 


V. Sì, l’emozione del primo libro non svanisce mai. La sognatrice con le trecce è stata una porta che si è aperta verso un modo più autentico di abitare la parola. È come se avesse dato un nome a una parte di me che cercava da tempo un luogo dove esistere.

Quella prima opera ha avuto la forza di confermarmi che la poesia, per me, è un’urgenza: un modo di restare fedele a ciò che sento. Da allora ogni processo creativo si è fatto più consapevole, più verticale, più mio.

Ti racconto un piccolo scorcio di me: quando arrivai a Catania, circa dodici anni fa, non conoscevo nessuno. Scrivere di nascosto sui taccuini le mie poesie era già, per me, un atto rivoluzionario.

Devo questo coraggio alla mia carissima amica — e professoressa di lettere — Agata Letizia Pappalardo, che allora era anche la mia vicina di casa. È stata la prima a leggere e a credere in quella mia timida forza poetica, instillando in me la fiducia necessaria per pubblicare. Non ci conoscevamo ancora, ma la poesia fu il nostro ponte iniziale: una piccola magia.

M. C'è un'ora o un momento privilegiato durante la giornata dove senti che la scrittura fluisce con maggior impulso?


V. Non credo tanto agli orari precisi quanto agli stati dell’anima. Detto questo, se dovessi indicare una fascia che porto sempre con me, direi il crepuscolo: quel tempo sospeso in cui il giorno cede, e la luce si fa meno invadente e più rivelatrice. Al crepuscolo le cose si svelano per sottrazione; rimane l’essenziale, e con esso le parole sembrano trovare spazio per respirare.

Ma è vero anche che certe volte l’alba mi sorprende con la sua limpidezza; altre volte la notte, con la sua intimità, toglie i veli e lascia emergere ciò che durante il giorno era taciuto. Più che un orario, esiste una condizione di quiete interiore, quando il mondo esterno si allenta e la mia voce può ascoltarsi senza pregiudizi.

M. Di recente è venuta a mancare uno dei cardini fondamentali della tua vita ma anche una figura centrale nel panorama letterario catanese: l'artista Vera Ambra. Puoi tratteggiare per noi un suo ricordo? 


V. La perdita di Vera Ambra non è un'assenza: è una presenza che si è fatta più sottile, più rarefatta, e forse proprio per questo più vicina. Parlare di lei è come aprire una stanza che conserva ancora il passo della sua voce, quel modo unico che aveva di abitare gli spazi, rigorosa e insieme generosa, come se ogni incontro fosse un’occasione sacra di cura.

Vera era una donna che non ammetteva l’approssimazione, ma non ha mai usato il rigore come barriera. Semmai, come atto d’amore verso l’arte e verso chi provava ad avvicinarla. Sapeva riconoscere una scintilla anche quando era nascosta sotto la cenere della timidezza o dell’inesperienza; non giudicava, ma proteggeva. Aveva una fermezza che non feriva, e una tenerezza che non faceva rumore.

Uno dei ricordi più vivi risale ai miei primi anni a Catania. Ero da poco arrivata in città, un po’ spaesata, con un primo libro stretto tra le mani come un talismano fragile. Ci sedemmo a un tavolino, due tazze di caffè d’orzo tra noi. Non si limitò a sfogliarlo con cortesia: aprì la sua borsa — un archivio errante di bellezza — e ne tirò fuori libri, suggerimenti, visioni: “Questo ti servirà”, “Questo leggilo”. Senza grandi dichiarazioni, in quel pomeriggio costruimmo un ponte.

Per me è stata un faro: illuminava non solo la rotta, ma gli scogli invisibili, quelli interiori. È grazie a lei se ho compreso che l’arte, nella sua forma più alta, è servizio e offerta: un prendersi cura del mondo e delle voci che ancora tremano, favorendo i processi con un’onestà intellettuale che non vacilla.

La sua mancanza fisica pesa. Ma ciò che ha seminato è vivo: i progetti che ha sostenuto, le energie che ha liberato, la sua fiducia nella cultura come casa comune. Tutto continua a camminare in chi ha avuto il privilegio di incontrarla.

Il mio ricordo di lei è un ringraziamento quotidiano. La mia promessa, portare avanti con delicatezza e responsabilità ciò che lei ha contribuito a mettere in moto.

M. Pensi che gli affetti del proprio quotidiano debbano sostenere attivamente l’essere artisti od ogni creazione è per necessità frutto di un lavorio più raccolto e solitario? Tu come la vivi?


V. È una domanda che tocca un nodo profondo. La creazione ha sempre una dimensione solitaria: quando scrivo devo entrare in uno spazio raccolto, quasi sacrale, dove il mondo si restringe e resta ciò che conta. È lì che prende forma il lavoro, la sottrazione delle parole inutili, la cura del ritmo e della voce.


Detto questo, la solitudine non è contrapposta agli affetti: gli affetti sono linfa. Non intendo un sostegno che invada o che pretenda di dirigere il lavoro creativo, ma un rispetto e una disponibilità che permettono al lavoro di esistere. L’affetto vero sa quando custodire il silenzio e quando offrire sostegno pratico o emotivo. Per me è fondamentale il bilancio: entro nella solitudine per creare, ma ritorno agli affetti per respirare e per ricordarmi che la poesia vive anche per gli altri.


In termini più concreti: chiedo rispetto per i miei tempi e i miei spazi, e in cambio porto il mio essere affettivo, presente, generoso. La creazione è un parto interiore; gli affetti sono la rete che lo accoglie quando emerge.


M. Progetti in corso di stesura? 


V. Sì, ci sono diversi fronti aperti. Il principale è una nuova raccolta poetica che sto lentamente componendo — un lavoro che parla di radici, di eredità interiori e di metamorfosi. È una raccolta che indaga il rapporto tra memoria personale e territorio, tra ciò che si eredita e ciò che si sceglie di coltivare.


Parallelamente, continuo l’attività progettuale con LeggerissimaMente – poesia, arte e musica, che cresce nelle pratiche e nelle collaborazioni: laboratori nelle scuole, incontri pubblici, momenti performativi che uniscono parole e musica. Questo progetto, nato dal desiderio di creare percorsi di avvicinamento alla poesia per pubblici diversi, si è arricchito grazie al bando Cepell e alla collaborazione con il Comune di Catania, e resta per me un luogo di sperimentazione e di cura.


Porto avanti anche attività di laboratorio in contesti scolastici e culturali, percorsi di lettura espressiva, e piccoli progetti editoriali legati a eventi e pubblicazioni collettive. Il lavoro è molteplice, ma tutto ruota intorno alla stessa idea: creare passaggi in cui la poesia possa incontrare le persone, e non restare relegata a un ambito esclusivamente specialistico.

Prima di salutarci, uno sguardo all'interno del tuo taccuino: quali versi inediti per i tuoi lettori?


Prima di salutarci, mi hai chiesto di condividere uno sguardo nel mio taccuino. È un gesto che richiede fiducia, come aprire una porta su un lavoro ancora in divenire. Questi versi nascono dalla stessa tensione tra il bisogno di radicamento e il richiamo del vuoto di cui abbiamo parlato. Forse sono un tentativo di dare una forma, persino musicale, a quel servizio e offerta che per me è l’arte.


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Vi lascio con queste parole:


Vorrei separarmi dai pensieri, dalle emozioni, dai ricordi,

e restare sospesa tra la terra

e il vuoto — quel vetusto abbraccio

che sostiene il cosmo, le comete,

i crateri muti.

Vorrei separare la paura, il dolore, l’affanno,

e fissarmi immobile nel centro

di un cerchio perfetto,

indissolubile come la fede.

Vorrei separare la fede dal frastuono lento

che consuma le tracce dei miei passi,

sgretolandole in polvere di stelle.

Vorrei separare i colori dei dipinti di Mirò,

strapparli dalla tela e svuotarli,

per saziarmi dell’azzurro etereo

delle nuvole in volo.

Vorrei, e ancora vorrei,

con lucida follia, morire

dentro un giro di jazz —

ultimo respiro di blues.


Grazie per questo dialogo.



Intervista a cura di Mirko Morello G. C.

Autrice ospite: Valentina Giua (la.sognatrice.con.le.trecce)

Fotografia da Canva

2 commenti

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Ospite
13 ore fa

Complimenti di vero cuore Valentina!ogni singola parola della tua intervista vibra il cuore e spinge l' anima in cammino sempre sospesa tra la terra e il Cielo!Ogni parola,ogni verso vive e vibra profondamente e diviene concreta realtà!con stima e affetto profondo! Grazie di vero cuore! La tua amica Veronica!!!❤️😘

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Valentina
4 ore fa
Risposta a

Sei preziosa grazie per le tue bellissime parole di affetto. Infinitamente grata💗

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