Polline, la fragranza interna e la Natura del Buddha
- lachanceria
- 10 feb
- Tempo di lettura: 4 min
rubrica: I giardini che siamo
Nei processi di cura legati al femminile ferito, il tema del Giardino è fervido e foriero di moltissime metafore che parlano di rinascita, cura e attenzione.
Prendersi cura di un giardino, o imparare a farlo, per chi ha subito violenza fisica e/o verbale e ha subìto ferite profonde all’autostima e all’autonomia, è un’attività che aiuta a rigenerare fiducia in sé in quanto atto “capace di rendere capaci”.
Da quando mi occupo di ortoterapia e di laboratori di aiuto e supporto ad altre discipline attraverso il verde, mi è capitato spesso di ascoltare racconti di donne legati al senso di impotenza e di frustrazione perché consapevoli di essere all’interno di una relazione tossica ma incapaci di vedersi oltre la relazione stessa; incapaci di allontanarsene definitivamente, nonostante i numerosi tentativi, immancabilmente andati a vuoto. Per esperienza personale, capisco e spesso vengo pervasa da così tanta disperazione da non vedere vie d’uscita e le osservo cadere giù tra le sabbie mobili, proprio come accadeva a me. È a quel punto che mi vien voglia di urlare; che mi scuoto, mi arrabbio; che temo un no ad ogni soluzione (pur sapendo che deve partire da loro) che vorrei proporre; che afferro loro la mano non perché mi creda Wonder Woman ma per dire, piuttosto, ti accompagno. È a quel punto che mi desto e ricordo di aver imboccato la via della Natura, che qualcuno amorevolmente mi ha offerto come una delle tante opportunità - poi rimasta a lungo latente e sopita - quando ero bambina. Dimenticata e sepolta per anni, come una mappa consegnata e poi dimenticata in fondo ad un baule, la relazione con la Natura ha lasciato spazio a cieli di città, cibi processati, smog e frenesia. Ad amori sani non riconosciuti e mal gestiti e ad amori insani (ri)conosciuti e, forse per questo, perpetrati a lungo. Chi vorrebbe, in fondo, lasciar andare pezzi della propria storia? Chi vorrebbe, d’altronde, provare il terrore della perdita e dell’abbandono da chi conosciamo così bene e presso cui abbiamo riposto tutte la nostra fiducia?

Non sempre di queste relazioni si parla - il ché è peggio - perché non tutte portano all’esito fatale di una mattanza a cui tristemente le cronache ci hanno abituato; accade quindi che moltissime (troppe) donne e giovani donne pensino di essere in un range di normalità anche quando sono cadute da tempo nella trappola della dipendenza affettiva, pensando di esserne indenni; oppure sono co-dipendenti senza rendersene conto e ad essere caduto nella dipendenza affettiva che si tramuta in ossessione è l’uomo, il compagno, l’amico, l’ex fidanzato.
“Chi soffre dei sintomi della dipendenza affettiva ha un forte bisogno di legame nei confronti di una persona dalla quale dipende totalmente e sulla quale investe tutte le proprie energie. Vive costantemente nell’ansia di poterla perdere e ha bisogno di continue rassicurazioni. Di solito ha difficoltà nell’identificare in modo consapevole i propri bisogni ed obiettivi se non in presenza di una figura di supporto o di un contesto che svolga questa funzione.” (Da: https://www.ipsico.it/sintomi-cura/dipendenza-affettiva/) Una definizione clinica da manuale dietro cui si cela un personalissimo inferno, un recinto ben strutturato, un abito sgualcito a cui si è affezionate, una vita limitata nel proprio potenziale, ovviamente, del tutto inespresso.
Nell profonda convinzione di quanto sia necessario uscire dalle proprie gabbie mentali, recuperare il proprio sé e ridefinire il proprio perché, credo che sia importante offrire a queste persone percorsi in grado di restituire il potere di fare e di essere e penso che gli elementi della natura siano potenti mediatori di supporto per adempiere a questo compito: attraverso la loro matericità, il loro alfabeto e il loro linguaggio, questi oggetti di natura (che io chiamo Tesori) sono capaci di ridefinire la nostra centratura e il nostro posto nel mondo suggerendo sensazioni, ricordi, archetipi e vissuti personali.
Allora la bellezza di una composizione può fare da specchio, riflettere i tesori di cui disponiamo, farci sentire parte di un tutto dove ognuno, nella propria diversità, riesce a collocarsi e a trovare il proprio posto. Attraverso gli elementi possiamo tracciare e narrare storie: le nostre, con ricordi che affiorano e guariscono, attraverso parole che mai pensavamo di trovare e sentimenti che mai pensavamo di riuscire a tirar fuori.
Volendo giocare – si fa per dire - con due parole molto significative, c’è un albo illustrato che mi ha fatto molto riflettere sulla Natura dell’Amore e sull’Amore per la Natura. Il titolo è Polline. Una storia d’Amore, di Davide Calì e Monica Barengo (Kite Edizioni), che rapisce per le illustrazioni poetiche e sognanti che conducono a storie d’altri tempi, di attese e languori, e dove i gesti e gli oggetti coinvolti (le forbicine da cucito, l’innaffiatoio di latta, la chiave antica …) diventano segni indiziali della cura, della grazia e della delicatezza che l’Amore, proprio come un fiore, richiede.

Si può amare solo in presenza e se ricambiati? Cosa comporta vivere solo in funzione di un amore? Si può amare al punto da vedere nell’assenza e nel ricordo una ragion d’essere? E quando un amore se ne va per altre strade? È possibile apprezzare l’amore dato e ricevuto e imparare a lasciare andare?
Questo albo pone domande e apre a riflessioni successive; prova a suggerire alcune risposte ma ciò che resta (ed è il motivo per cui lo consiglio) è il senso del percorso di comprensione del sentimento attraverso l’osservazione di un fiore. L’amore, la sua essenza e il suo significato vengono compresi dalla protagonista – analfabeta del “verde” come tutti coloro che sono privi di una vera educazione sentimentale - attraverso la nascita, la morte, la riproduzione-disseminazione e quindi la rinascita di un fiore, mettendo in moto metafore, similitudini e interrogativi utili in un percorso di crescita e consapevolezza, soprattutto quando si è rimasti feriti o intrappolati in relazioni tossiche o turbolente.
E così il polline, ci suggerisce l’autore, in definitiva è ciò che trasporta l’essenza di un fiore, ciò di cui rimane pervasa l’aria; un mezzo attraverso cui rinasce e si rinnova, come fosse una “fragranza interna” (così è anche definita la natura del Buddha) che, trovate le giuste condizioni per potersi esprimere, si manifesta illuminando molteplici vite come molteplici giardini.

Polline.
Una storia d’Amore: metafora e rispecchiamento nei percorsi di vita.
Vi auguro una buona lettura.
Testo e fotografie di Milena Bellonotto
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