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(Nove) Storie sull’amore - educare alla pace attraverso la Natura.

rubrica: I giardini che siamo


Tempi bui e venti di guerra imperversano sul nostro quotidiano. Mi capita spesso di chiedermi cosa sia in mio potere fare per invertire anche solo di poco la rotta, agire in controtendenza e magari - pensiero ambizioso – trovare quanti più modi possibili di educare alla pace.

Nella mia professione sono solita lavorare per obiettivi a breve, medio e lungo termine, a seconda della tipologia di persone che partecipa agli incontri di ortoterapia; il denominatore comune resta, comunque, quello di "massimizzare il funzionamento sociale, cognitivo, fisico e/o psicologico e/o incrementare lo stato di salute e il benessere della persona” (Haller and Capra, 2018).

Se è vero che credo profondamente in questa pratica e nel suo enorme potenziale, di recente, tuttavia mi sono chiesta se sia legittimo parlarne solo in relazione a quelle persone che hanno una qualche difficoltà palese, per così dire certificata, riconosciuta da un impianto di tipo medico terapeutico. E tutti gli altri? Quelli che "tanto non ne ho bisogno", quelli che "ho tutto sotto controllo, Natura compresa"? Talvolta mi chiedo se non sia il caso di fare una call for action dedicata a quanti più soggetti possibili, indipendentemente da una qualsivoglia neurodivergenza o difficoltà.


Accanto a questo primo pensiero, un altro più fantasioso, rocambolesco e dai tratti vagamente onirici in stile felliniano, è venuto a trovarmi in taluni momenti di insonnia notturna, quasi a delinearsi come trama di un lungometraggio sperimentale, a metà strada tra ricerca socio-antropologica, docu-fiction e surrealismo. Ecco, lo confesso: ho immaginato per un momento di rapire i capi di stato di mezzo mondo e abbandonarli in un bosco in Canada, o nella foresta amazzonica, senza mezzi o artefatti, per una vera esperienza wild; di osservarli senza che sappiano (Orwell docet) per il gusto di capire se possano interrogarsi sul senso del potere, sui bisogni primari dell'umanità, sull'interdipendenza tra noi e l'ambiente che ci circonda.

Nel profondo del cuore nutro - forse utopicamente - la speranza che possano trovare un accordo e che stando a contatto con la Natura, non avendo altra possibilità di scelta, possano entrare in relazione con essa e capire il significato profondo dell'essere ospiti di questo pianeta; che possano, insomma, capire che Natura non è Altrove, fuori o chissà dove, ma dentro di noi. Secondo i piani da novella sceneggiatrice, la storia, poi, dovrebbe evolversi portando i grandi capi di stato ad inserire come obbligatorio per legge e per tutti un periodo di “Servizio alla Natura”, un certo periodo di tempo in cui tutti dovrebbero vivere in un bosco, a contatto con alberi secolari, coltivare il proprio cibo, prendersi cura di un angolo di mondo incontaminato. Fine.


L’insonnia non fa bene, mi rendo conto. Aggiungiamoci che sono una boomer, cresciuta a suon di Happy Days, Pollyanna e Star Trek; pare ovvio, diciamolo pure, che qualche strascico circa gli happy end sia rimasto, qua e là. Sul tema, comunque, posso vantare ottime compagnie, visto che esistono pareri - tanto più illustri del mio quanto dissonanti tra loro - sull’uomo lasciato a se stesso in Natura: dal mito del buon selvaggio professato da Rousseau a quello dell’uomo-diavolo-selvatico la cui indole perversa prende il sopravvento e di cui ci parla magistralmente Golding nel noto romanzo Il Signore delle Mosche.


La ragione per cui nella mia pratica come ortoterapeuta amo approfondire e usufruire di quanti più strumenti possibili presi in prestito da altre discipline, è quella che mi spinge talvolta ad agire su di un confine dove non c'è il cosiddetto "caso" di cui occuparsi in modo convenzionale, quanto piuttosto di una società intera che non si riconosce come organismo malato ma che si compone, comunque, di uomini e donne smarriti, privi di una qualche sorta di relazione equilibrata col mondo che li circonda. Fior di scrittori e filosofi hanno affrontato il tema nei secoli; la storia della comunicazione non violenta ha sicuramente molto da dire e insegnare in proposito. Interi manuali di prossemica e di comunicazione potrebbero dire molto sul disequilibrio che ci abita, che si impossessa dei nostri corpi e parla al posto nostro. Ma ho la netta sensazione che prima di affrontare il tema del cosa e del come comunicare con gli altri, il nodo cruciale verta intorno alla questione di come comunichiamo e dialoghiamo con noi stessi: quali valori e quali capacità ci riconosciamo? A quali voci del nostro vissuto decidiamo di dare ascolto? Quali abitudini comunicative abbiamo intrapreso con noi stessi? Siamo soliti essere taglienti come un coltello al minimo inciampo oppure ci riconosciamo come capaci di accogliere le nostre imperfezioni? Ho il sospetto, ancora, che senza un vero "disarmo interiore" come pratica quotidiana, continueremo ad essere despoti di noi stessi, sottomessi alla tirannia di un linguaggio da guerrafondai, incapaci di gentilezza gratuita e poco inclini all'incontro autentico con l'altro.

Senza disarmo interiore, è possibile instaurare dinamiche di cooperazione anziché di competizione? Se non impariamo per primi a disarmarci, possiamo dirci  capaci di accompagnare ed essere presi a modello dalle nuove generazioni imparando ad andare oltre le "challenge" per dare loro una restituzione vera del nostro essere umani, che contempli imperfezioni, cadute e momenti in cui ci si rialza?


Marco Nieri, autore de “La terapia segreta degli alberi” afferma che “la biofilia, ci ricorda che neurologicamente l’amore per la Natura è dentro i nostri geni, ma i fattori educativi e culturali sono importanti e possono influenzare l’apprendimento che potremmo ricevere dalla Natura. Dovremmo crescere nuove generazioni che capiscano che è tempo di prenderci cura gli uni degli altri, umani vegetali ed animali”. E si ritorna al tema dell’educazione a contatto con la Natura: qual è la relazione con il tema della pace?

A questo proposito illuminante è Il Manifesto di costituzione di una rete di orti di pace - nata da un’idea di Gianfranco Zavalloni e sviluppata poi da Pia Pera (1956-2016) - che afferma:

“Chiunque, nel rispetto dell’ambiente, coltivi la terra lavora anche per la pace. Anche quando i conflitti mettono a repentaglio la sopravvivenza, e li chiamano  per questo orti di guerra, sono sempre e comunque orti di pace. [...]

Occorre imparare di nuovo l’abbiccì del rapporto con la Natura. Per questo siamo partiti dagli orti scolastici: aule all’aperto dove apprendere un modo di stare al mondo per cui, anziché semplici consumatori, diventiamo creatori di vita, e nella pratica di una possibile autosufficienza apprendiamo il respiro della libertà interiore. Un giardino, un bosco, un orto trasformano la scuola in qualcosa di vivo di cui prendersi cura.

Partiti dalla scuola, abbiamo poi esteso la nostra attenzione agli orti terapeutici, carcerari, sociali: spazi dove ci si prende cura di fiori e ortaggi scoprendo al contempo nell’orto un luogo ideale dove intrecciare tutta una serie di scambi con la natura, l’ambiente e la comunità, coltivando intanto la pace interiore.”

Quanta luce in queste parole. Non mi stanco di rileggerle, almeno quanto non mi stanco di leggere “Nove storie sull'amore. Più una sulla felicità e un saluto”, albo edito da Topipittori nel 2016, con testi di Giovanna Zoboli e illustrazioni di Ana Ventura. Autrice e illustratrice ci fanno ritornare piccini quando ci conducono per mano a spasso tra racconti brevissimi dove esseri umani all’apparenza un po’ strambi interagiscono con fiori, erbette, piante, alberi, terra, vento, pioggia, lombrichi e uccellini e dove ogni elemento è al posto giusto esattamente dove si trova, proprio così com’è, senza bisogno di essere qualcos’altro di diverso da se stesso; il ché mi sembra già essere un primo seme per il germogliare della propria pace interiore.

Che gioia per il cuore, allora, incontrare  “la Signora degli Innaffiatoi” che non è più  “la matta con un innaffiatoio” ammaccato e pieno di pioggia, ma un’eroina moderna la cui ragion d’essere si manifesta per mezzo di un oggetto magico - ma di uso comune - che le permette di  portare il verde in ogni angolo della città. Come non ritrovarsi, poi, nella storia dell’uomo indaffarato che pensava sempre ai fatti suoi,  che un bel giorno si addormentò come tramortito nell’erba e la cui “testa era offesa e piena di nostalgia per tutte le cose che non sapeva più pensare”’?  Che sollievo sapere di poter inciampare ed essere salvati dal buio della propria mente grazie a Madre Natura!


Nelle poche e ben calibrate parole di ogni racconto (scritto in font e colori diversi tra loro, a sottolineare l’unicità di ognuno) si concentrano pensieri densi, ricchi e potenti: metafore sul nostro vivere quotidiano dove ruoli ed etichette spadroneggiano come fossero piccoli ladruncoli di parti di noi, il cui unico desiderio è andar bene così come sono. Per questo tocca nel profondo la storia del “signore che si sentiva pieno di pioggia”, colmo di vergogna per tutta l’umidità che aveva addosso: anche lui capisce il suo perché, quando, una volta accolto in giardino, si commuove per l’accoglienza ricevuta e piangendo nutre letteralmente un alberello tutto secco, insieme a cui rinasce e trova dignità. Grazia, leggerezza e una sorta di simbiosi-fusione con la Natura sono alcune delle caratteristiche dei personaggi fantasiosi illustrati da Ana Ventura che ben accompagnano questi meravigliosi racconti, in un equilibrio tra testo e illustrazione che dialogano tra loro, aggiungono informazioni e significati l’uno all’altra, dando origine a nuovi pensieri e nuove riflessioni sui temi dell’amore e dell’interdipendenza tra noi e l’ambiente.


“(...…) Allora la storia andò avanti e raccontò di un giardino bellissimo dove i bambini pendevano dagli alberi come mele, gli uccelli studiavano musica, i fiori pensavano come filosofi e le case erano pulite e leggere come foglie. Il ragazzo rimase ad ascoltare fino alla fine. Poi pensò: «Sarà un onore far parte di questa famiglia di erbe e di animali» E si dedicò a crescere con molto impegno.

Nove storie sull’Amore. Da leggere,  per piantare semi di pace, nel nostro cuore come nei nostri giardini, perché come ebbe a scrivere Vita Sackville West, nessun giardiniere sarebbe un giardiniere se non vivesse nella speranza.



Testo di Milena Bellonotto (@ventodifogli.e)

Fotografie da "Nove Storie sull’amore" con illustrazioni di Ana Ventura





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